Su “L’eco di mia madre” di Tamara Kamenszain

tamara_kamenszain_el_eco_coverEDIZIONI KOLIBRIS
Collana argentina
Tamara Kamenszain, L’eco di mia madre
Traduzione di Chiara De Luca
ISBN 978-88-96263-99-0
pp. 70, € 12

“E il cuore quando d’un ultimo battito / avrà fatto cadere il muro d’ombra / per condurmi, Madre, sino al Signore, / come una volta mi darai la mano […]” scrive Giuseppe Ungaretti nella sua indimenticabile poesia alla Madre. Ed è all’Ungaretti del Taccuino del vecchio che Tamara Kamenszain chiede aiuto per cantare lo sconfinato dolore derivato dal taglio delle radici, della definitiva separazione che la lascia orfana dell’alterità che l’ha generata e la contiene.

L’eco di mia madre sembra nascere dalla confluenza di una polifonia di echi, che ne fanno canto corale, come spesso avviene nella poesia della Kamenszain. Il fiume in piena della voce della poetessa scorre verso la foce del silenzio, accogliendo in sé il canto d’altri poeti – amici e sodali, sconosciuti e all’apparenza distanti – condividendo il viaggio oscuro del tentativo di contenere in parole ciò che ne esonda, per pronunciare la sottrazione, la presente assenza esperita dalla figlia desmadrada dalla inesorabile malattia che l’ha privata della madre prima ancora che quest’ultima morisse.

Le parole di César Vallejo, Lucía Laragione, Coral Bracho, Sylvia Molloy, Diamela Eltit, José Asunción Silva, Alejandra Pizarnik, che segnano un’esperienza di vita condivisa, sono richiamate dalla poetessa come il la che le restituisce la voce spezzata dal dolore che ha “tagliato il libro” nel profondo dell’infanzia, inducendo la bambina al canto. La poesia è dunque ciò che sopravvive al silenzio. Le parole sono pietre, scavate a una a una dal greto del fiume, dalle brulicanti profondità dell’inconscio, dove  l’identità adulta si amalgama e fonde con l’essenza dell’infanzia, nell’argilla da cui rinascere e prendere nuova forma, orfana della matrice, matrioska, originaria.

Nella proiezione attuata da Ungaretti, la madre assume le sembianze dello psicopompo che accompagnerà il figlio alla morte così come l’ha accompagnato alla vita e nella vita. Nell’Eco di mia madre i ruoli s’invertono. La figlia si trova a dover condurre per mano la madre, come una guida un cieco, divenendo essa stessa madre di chi l’ha generata, senza esservi pronta, perché, come scrive Diamela Eltit, citata in esergo, di fatto non lo si è mai.

Questa metamorfosi della figlia in madre induce la poetessa a una spoliazione, la costringe a esercitare violenza su se stessa per mettersi da parte, annullando il proprio bisogno di guida e di certezza, la propria identità di figlia ancora “bambinona”, più che mai timorosa, spaventata, a sua volta abbandonata senza appiglio come un cieco in un luogo ignoto e mai neppure immaginato. Nel processo di duplice metamorfosi della figlia in madre e della madre in figlia anche la lingua poetica si deve riplasmare alla rovina, dalle macerie della memoria della madre, sparpagliate nel buio della mente. Da questa tabula rasa riemergono progressivamente i vagiti dell’infanzia, il lallare in cerca di un suono, filastrocche infantili che disegnano la “m”, reinsegnano a dire Mamma, Madre, come fosse per la prima volta, come se così potesse tornare alla figlia che l’accompagnò a morire due volte, e ripartorirla.

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