Su “E il fulmine si vanterà della sua opera” di Bill Manhire

Manhire_coverNella poesia “Le vittime del fulmine” Bill Manhire raffigura il processo dell’ispirazione poetica come un evento repentino e inesorabile, cui la vittima, il poeta, è esposto senza riparo, cui anzi volutamente si espone quando si verificano le giuste condizioni perché il fulmine colpisca, quando la tempesta infuria, e tutto ciò che tende verso l’alto è a rischio di essere folgorato. La lingua poetica nasce quando la realtà ordinaria prende fuoco per un’improvvisa folgorazione, si sviluppa da una combustione, alimentandosi di fiamme e di calore. La creazione è consunzione che ri-genera. L’incendio della parola poetica fa tabula rasa della realtà per ricrearla, spezza il legame consueto esistente tra il mondo e l’idea che ne abbiamo, rovescia l’aderenza tra l’involucro della parola e il suo senso immediato, illuminando a giorno l’oscurità, in una inattesa e dolorosa alba interiore, che si riverbera in nuove scintille di significati.

Manhire è un alchimista, ma non uno di quelli che danno la caccia a ingredienti ignoti o esotici, da fondere in composti dal gusto tanto raffinato quanto inconsistente. Manhire si serve degli ingredienti del pane della parola quotidiana, ricombinandoli in nuovi, inconsueti composti, generando nuove risposte di sensi. La poesia di Manhire è sempre soprendente e, come il fulmine, improvvisa. Il poeta ci conduce per mano in luoghi familiari e conosciuti, ce  li mostra con nonchalance, finché, senza preavviso, qualcosa nella normale percezione che ne abbiamo si spezza, una botola si apre sul sentiero spianato dal verso e c’inghiotte. A un tratto il buio ci avvolge e genera fantasmi: le foto di famiglia si animano mettendoci di fronte ai ricordi rimossi, alla nostra memoria sepolta, oppure alle ferite mai cicatrizzate della storia.

Il poeta dapprima ci abbandona allo spaesamento, a domande incise nel vuoto come asserzioni. Infine sparge indizi per ricondurci in superficie, dove il mondo appare mutato dall’istante in cui l’abbiamo lasciato, soltanto pochi versi prima.

Bill Manhire ci mostra cose che tutti abbiamo visto e toccato, per poi lasciare che un più profondo e nascosto significato riaffiori alla nostra coscienza. I piani di realtà, e sogno, di percezione empirica e proiezione inconscia si confondono al punto che non siamo più in grado di distinguerli l’uno dall’altro. Ma non c’è alcun disegno escapistico in questo, piuttosto un desiderio di piena aderenza alla realtà che ci circonda: il sogno, l’assurdo, il grottesco, l’inafferrabile sono quanto di più reale la abiti. Il lettore procede tra le pagine come camminando su una fune sottilissima sospesa sull’abisso, con un costante senso di sospensione, indotto a una esasperata apertura percettiva che rende fertile il guardare. I passi tra le prime pagine sono cauti.  Avvertiamo un senso di pericolo nell’aria: è l’inafferrabile che si materializza, fino a sembrarci a portata di mano. Occorre allora l’abbandono, quello dei bambini, che non dubitano di fronte all’assurdo, perché sanno che è vero. Sanno che le cose hanno un’anima e che ogni cosa ci parla, come ci parla l’enorme silenzio della bambole di Rilke, che ci guardano con occhi vuoti dal cratere delle orbite in cui pare possa entrare il mondo. O non soltanto pare: così avviene.

Leave a comment